Museo/Monumento

LA MINIERA TRABIA-TALLARITA

Descrizione
LA MINIERA TRABIA TALLARITA Denominata "Solfara Grande", la miniera TrabiaTallarita si trova fra il territorio di Sommatino e quello di Riesi; essa fu una delle più antiche solfare della Sicilia. Si suppone che i primi scavi per la ricerca dello zolfo, in questo territorio e nelle zone limitrofe, siano cominciati intorno al 1600 poiché, proprio in quel periodo, i paesi vicini si popolarono di persone in cerca di lavoro provenienti da ogni parte della Sicilia. lì primo proprietario della miniera fu il principe di Trabia e di Butera, che affidava la sorveglianza della "Solfara Grande" a persone di sua fiducia. Ma l'incendio divampato all'interno di essa il 27 febbraio del 1883, causò la morte di decine di operai e la conseguente chiusura. Venne riaperta nel 1898 ed affidata al sig. Arcarese che ne assunse la direzione insieme al capomastro sig. Scalia. Dalla fine del 1890 in poi, la direzione della miniera venne affidata alla Ditta Luttazzi e Nuvolari; ad essa si deve anche la realizzazione della funivia, che consentì il trasporto dello zolfo lavorato fino alla stazione di Ravanusa. Dal 1907 al 1920 la miniera passò alla gestione della Società Obbligatoria Mineraria Siciliana, che nel 1926 cambierà denominazione e si chiamerà Imera e successivamente Società Val Salso fino al 1963; infine dal '63 fino alla sua chiusura verrà assorbita dalla Regione Siciliana, prima con la denominazione di Ente Minerario Siciliano, e SO.CHI.MI.Sl. Prima della definitiva chiusura, venne costituito un istituto per la formazione e l'addestramento professionale dei minatori, denominato C.A.M. (Centro Addestramento Minatori). Le notizie riferite di seguito, sono state reperite in una relazione redatta in seguito ad un disastro della Miniera Trabia, avvenuto il 27 luglio 1883. "La miniera, di proprietà del Principe di Trabia (gestita) dal Sig. Luigi Scalia si trova sulla sponda destra del fiume Salso o Imera meridionale, comprende tre zone di lavoro: Solfara Perrerella (Solfarella); Solfara Galleria Ercole; Solfara Grande. Tutte e tre formano la più grande ed importante miniera della Sicilia, considerando il fatto che lavoravano in questa miniera già circa 1000 operai. I tre cantieri si trovavano su uno stesso giacimento, anche se non sono collegate, in quanto le prime due, sono divise da uno strato sterile di rocce; entrambe si dividevano dalla Solfara Grande da un brusco ripiegamento con rottura. La formazione solfifera di questo importante bacino era rappresentato dal Tripoll (roccia silicea friabile di colore biancastro che trae origine dall'accumulo dei gusci di microrganismi marini), che (poggia vano) su una grande formazione di argille miocen(iche), dal calcare (di base) siliceo; dal minerale solfifero che direttamente poggiava su di esso; dal gesso e dal calcare marnoso detto "trubo" soprastante e dall'argilla della stessa epoca. Una maggiore quantità di gesso era presente laddove lo zolfo era più abbondante, mentre scarseggiava quando compariva l'arenaria, chiamata dagli zolfatari "Arenazzulu". ll giacimento solfifero si presentava con un bellissimo affioramento che seguiva la cresta della montagna; il minerale discendeva incassato nelle suddette rocce in senso quasi verticale per ripiegar(si) poi gradualmente in profondità, raggiungendo una inclinazione di 400-500 circa. (...) i primi lavori furono eseguiti partendo dagli affioramenti poi (...) a poco a poco si cominciò a scendere (in profondità), fino ad arrivare sotto la quota del fiume, con i (conseguenti) problemi di infiltrazione e d'umidità (...). Era appunto in uno di questi affioramenti, quello della "Solfara Grande che si sviluppò un enorme incendio che trasformò tutto il sottosuolo in un enorme "calcarone": (si ottenne) un'illimitata colata di zolfo fuso che per molti decenni permise l'estrazione di questo minerale allo stato puro. Già nel 1883 si arrivò al quarto livello, cioè a circa 16 metri dalla bocca del pozzo "Vitello Vittorio" e ad una profondità di circa 100 metri. La ventilazione avveniva in modo naturale dal pozzo S. Luigj che, al secondo livello, si collegava alla scala di riflusso, denominata "Trabia". L'estrazione in questa miniera era molto intensa, vi lavoravano circa 160 picconieri divisi i due turni; calcolando che per un picconiere occorre vano in media tre trasportator4 giornalmente vi lavoravano da 650 a 700 persone. lì pagamento degli operai avveniva a "cottimo" o come dicevano gli stessi minatori a "partito" (a seconda di diversi tipi di contratti con la ditta che gestiva la miniera). (...) Nelle ore antimeridiane, cioè dalle 4,00 alle 12,00 il lavoro era più intenso, in quanto oltre all'abbattimento del minerale, lo stesso veniva trasportato in superficie; mentre dalle 12,00 alle 20,00 lavoravano solo i "picconieri" (..)". Il lavoro doveva essere svolto con il solo uso del piccone, mentre vietato era l'utilizzo delle mine, che avrebbero potuto provocare eventuali crolli, tuttavia dove la roccia era più dura non si esitava ad usare carico esplosivo. lì lavoro dei "picconieri" era accompagnato dalle squadre di sbarramento (o sgombramento) costituite dai "carusi", che avevano il compito di trasportare lo zolfo all'esterno della miniera. Rapporto sull'ispezione del 11 maggio 1889: "La sezione "Solfarella" aveva raggiunto una profondità di circa 130 metri sotto il piano del terreno ed è grazie alla galleria "Sofia" che fa da scolo alle acque, se questo pozzo non ne fu invaso; già in questo periodo esistevano il pozzo "Vitello Vittorio"; che aveva raggiunto una profondità di 80 metri, il pozzo "Trabia" (o "Pozzo Principe') ed il pozzo "S. Luigi" che serviva per calare i riempimenti che si usavano in miniera (...). Quando si estraeva, lo zolfo non era puro, ma era attaccato a molti altri minerali quali gesso, terra, ecc., quindi per poter scindere lo zolfo dal resto del materiale, il tutto veniva fuso, in "calcarelle" prima, in "calcaroni" poi ed infine, nei forni Gill. (...) Da una relazione di infortunio (gennaio 1898) si è constatato che già in quegli anni si era costruito presso la miniera Trabia, un primo forno Gill a quattro celle, alto circa 5,5 metri. Il "rosticcio" residuo dei vicini "calcaroni" veniva riciclato come manto di copertura dello stesso forno. Lateralmente al forno, nello stesso lato del "rosticcio' vennero realizzate gallerie parallele, che erano larghe circa 2,00 m. ed alte 3,30 m fino ad arrivare alla chiave di volta; a queste celle se ne aggiunsero altre quattro: due lateralmente e due di fronte le aperture delle gallerie, I muri di queste nuove celle erano spesse 2 m., ma in seguito ad un crollo della stessa galleria, che causò la morte di due operai, la realizzazione del resto dei forni venne spostata in una zona più sicura". Dando ora uno sguardo al metodo di cottura dello zolfo estratto, c'è da dire, come accennato in precedenza, che il minerale estratto non era allo stato puro, ma si presentava attaccato a diversi tipi di materiali. Si distinguevano così quattro tipi di zolfo, a seconda della percentuale di presenza dello stesso: 24% di zolfo: ricco (la "vanella" o "vaniddruzza"); 16-24% di zolfo: media ricchezza (la "ranni"); 10-16% di zolfo: minerale povero ("la mpitrata"); meno del 10% di zolfo: calcare insolforato ("la bastarda"). Infine si estraeva anche il gesso, di nessuna utilità. Quindi lo zolfo doveva essere separato dalle altri componenti: la cottura ad una determinata temperatura faceva sì che esso si liquefacesse e si separasse dal resto del materiale; nacquero così i primi forni, chiamati "calcarelle". Il primo metodo delle "calcarelle" consisteva nel preparare, nel terreno esterno alla miniera, una specie di fornace circolare del diametro di 1-2 m; essa veniva riempita di zolfo impuro, trasportato dai "carusi", mediante appositi contenitori chiamati "stirratura". Compiuta la carica, la "calcarella" veniva accesa e all'imbrunire veniva abbandonata a se stessa fino al mattino, ora in cui cominciava a colare lo zolfo liquido dal foro che veniva chiamato "punto di morte"; verso sera poi la colata si esauriva e la fusione era finita. All'interno delle "calcarelle" veniva aperto un foro detto "cupaluru", che rappresentava il cuore della "calcarella", dal quale partiva la fiamma che faceva bruciare tutto il minerale. Dello zolfo contenuto nella "calcarella", quasi 2/3 veniva bruciato perdendosi nell'aria e producendo così, una grande quantità di fumo (anidride solforosa); la rimanente parte di zolfo usciva dal foro e veniva a depositarsi in appositi contenitori di legno chiamati "gavite". Dai "calcaroni" si ottenevano 7000-8000 pezzi di zolfo al giorno. Una disposizione governativa stabilì che le "calcarelle" potevano bruciare solo dal l° agosto al 31 dicembre dello stesso anno. Questo sistema di raffinatura molto antico, si usò sino al 1850 circa e fu poi abbandonato, poiché molto dispendioso. Il cono di materiale accumulato nelle "calcarelle" veniva coperto con del "rosticcio", cioè con materiale inerte di qualità scadente; aumentando la quantità di "rosticcio" a copertura, diminuiva notevolmente la perdita di minerale per vaporizzazione. Tale copertura col "rosticcio" veniva chiamata "'ncammisata". Si pensò così di costruire delle "calcarelle" di dimensioni maggiori, che andavano da 5 a 30 metri di diametro, chiamate per le loro dimensioni "calcaroni". L'impiego del "rosticcio" per la copertura dello zolfo nei "calcaroni" fu del tutto casuale; tutto ebbe inizio quando, in una miniera vicino Favara (Ag) scoppiò un incendio di natura dolosa nei depositi di zolfo non ancora raffinato. Gli operai che lavoravano nelle vicinanze accorsero subito e con l'acqua cercarono di spegnerlo, ma il tentativo fu vano; decisero quindi di coprire il tutto con il terreno circostante. L'incendio si spense, ma da quelle macerie cominciò ad uscire zolfo liquido purissimo; da questo accidente ci si rese conto, quindi, che all'interno del cumulo di minerale il fuoco non si era spento e che il metodo del "rosticcio" si dimostrava efficace. Si constatò anche che i tempi di fusione cambiavano a seconda delle dimensioni del "calcarone"; la prima comparsa dello zolfo fuso avveniva dopo le 20 ore e si esauriva generalmente dopo 90 giorni circa. Quando la fusione dello zolfo terminava, veniva aperto il muretto del foro d'uscita ('punto di morte") ed il liquido riposto nelle apposite "gavite", quindi l'operaio addetto al riempimento di queste, doveva stare molto attento a cambiare quella piena con quella vuota senza far disperdere il minerale. La "gavita" aveva una capacità di 35-40 litri di zolfo liquido, chiamato "ugliu"; alla solidificazione, che avveniva in modo naturale, all'aperto accanto al forno, lo zolfo che solidificava all'interno della "gavita" era denominato "basula". Le "basule" pesavano circa 60-80 kg e venivano accatastate, caricate sui vagoni e mandate alla funivia. Niente veniva sprecato: la polvere di zolfo che rimaneva nelle vicinanze, veniva raccolta, impastata "panuttu" e riposta a sua volta nei "calcaroni". Robert Gill nel 1880 brevettò un impianto destinato ad avere parecchia fortuna. Questo era costituito da due celle adiacenti, a sezione troncoconica, in muratura e sormontate da calotte sferiche, in mezzo alle quali si apriva un foro destinato al carico del minerale. Avvenuta la fusione, ogni cella veniva svuotata, grazie ad una apertura di circa 2 metri che consentiva l'ingresso dei vagoni sui quali veniva caricato lo zolfo fuso. Il materiale residuo veniva chiamato "ginisi". Il forno ebbe un uso più razionale a partire dal 1886, con un nuovo procedimento, infatti si cominciarono ad usare 4-6 celle ("quartigile" o "sestiglie"), ognuna delle quali era fornita di quattro aperture, poste due in alto e due in basso; una di queste aperture dava l'ingresso ad una canna, generalmente verticale, che si immetteva o nel camino d'uscita dei gas, alto circa 5 metri, o nell'alto della cella successiva; apposite valvole permettevano ai gasi di seguire l'una o l'altra via. Per ogni cella, gli operai scaricavano circa 40 vagoni di minerale estratto dalla miniera. All'interno di ogni "sestiglia", disposta di fronte all'ingresso, c'era una scala che consentiva agli operai di spostarsi dall'interno alla parte superiore della stessa. Gli zolfatari che lavoravano ai forni venivano chiamati "arditura". L'aria esterna entrava per un foro aperto in prossimità del "punto di morte" nella cella motrice, attraversava dal basso verso l'alto la massa dei "rosticci" caldi, penetrava dall'alto nella cella successiva in fusione, scendeva attraverso il minerale fuso, imboccando la relativa canna e riversandosi dall'alto nella cella contenente il minerale in riscaldamento; attraversava quest'ultimo ed, infine, si introduceva nella rispettiva canna ed andava nel camino di scarico. Nella quarta cella, si effettuava lo scarico dei "rosticci" ed il caricamento, dall'alto, dello zolfo pronto per la fusione. Cessata la fusione nella seconda cella, che diventava la motrice, la quarta entrava in serie per il riscaldamento, la terza cominciava la fusione mentre la prima si scaricava. Lo stesso procedimento veniva applicato anche per le "sestigile". Il materiale residuo ("ginisi"), dopo la cottura del minerale, veniva caricato sui vagoni, questi ultimi, su appositi binari, venivano condotti lungo le sponde del fiume Salso, e disperso così lungo il suo corso. Per un secolo si studiarono centinaia di processi per la fusione dello zolfo ma, quando si raggiunsero le migliori soluzioni, le nostre solfare si avviarono alla chiusura. Dai forni o dai "calcaroni" veniva raccolta la cosiddetta "basula", che si depositava dentro i vagoni, i quali arrivavano dalla funicolare che collegava la miniera Trabia alla stazione ferroviaria di Ravanusa (Ag), per essere poi esportata. Da una relazione d'ispezione condotta dal Sig. Lovari, del 30 maggio 1904 e successiva integrazione dell' 8 giugno dello stesso anno, si rivela che la funicolare venne realizzata nel 1900, previa domanda al Ministero dell'Agricoltura, Industria e Commercio, da parte della Ditta proprietaria, Luttazzi e Nuvolari. Costruita dalla Ditta Seilban di Cassei aveva una lunghezza di m. 9800; i terreni attraversati, vennero in parte espropriati ed in parte sottoposti a servitù di passaggio. L'impianto era dotato di un cavo portante ed un cavo traente: nel cavo portante correvano le benne piene, da 4 a 6 T., nel cavo traente quelle vuote. Le benne, tramite apposita rotaia applicata su un castelletto, passavano da un tronco di trave all'altro. Il castelletto, aveva quattro tenditori due per i tratti di cavo con vagoncini carichi e due per i tratti di cavo per quelli scarichi. Oltre ai castelletti di ancoraggio esistevano altri 68 castelletti per i vari appoggi, sia dei cavi di carico che per quelli di scarico; la distanza fra i castelletti variava fino ad un massimo di 600 m a seconda della distanza tra i castelletti, il cavo aveva uno spessore variabile, che andava da 26 a 29 mm per la linea ove occorrevano le benne piene, mentre di 21 mm per l'altra. I cavi erano intrecciati con un'anima d'acciaio fuso al crogiolo, capaci di una resistenza di 120 kg. Considerata la grande distanza dei castelletti, l'inflessione del cavo era inevitabile, quindi se nella stazione di arrivo (Ravanusa), le benne si muovevano di moto pressoché uniforme, nella stazione di partenza (Trabia) si avevano degli stiramenti e degli allungamenti, dovuti a questo effetto. Il cavo traente era teso da un unico tenditore posto alla stazione di Trabia, ed aveva un peso di circa 8 T. Il numero totale delle benne presenti nella funivia era di 170, posti ad una distanza di 1,20 metri e percorreva l'intera linea ad una velocità di 2 metri al minuto; in tal modo si calcolava che arrivasse un vagoncino ogni minuto circa. Il peso delle benne vuote era di 200 kg, il carico utile era di 250 kg, per cui si potevano trasportare 100 T. in circa 7 ore di lavoro. Una prima benna usata, era fornita di uno sportello posto nella parte frontale che serviva per lo scarico dello zolfo alla stazione di Ravanusa, ma aveva l'inconveniente di un enorme perdita di tempo e dello sfrido di zolfo lungo le fessure; venne ideata, quindi, una nuova benna che non era dotata di sportello e scaricava il minerale rovesciandosi, risparmiando così tempo e non disperdendo zolfo. In condizioni normali, le macchine motrici dovevano consumare 400 kg di antracite per cavallo orario, ma per diversi problemi, il consumo di antracite era di 500-600 kg al giorno. Nella stazione di Trabia erano impiegate delle rotaie che consentivano il caricamento delle benne vuote provenienti da Ravanusa, mentre nella stazione di arrivo c erano 3 tavolati disposti a "C", su un'impalcatura di legno posta ad ad una quota più alta del livello dei vagoni ferroviari; da un lato, mediante un trasbordatore, le benne venivano caricate. Queste, infatti, non viaggiavano mai vuote, ma trasportavano zolfo da Trabia e materiale - quale legname, cemento, ferro ecc. -occorrente sia all'interno che all'esterno della miniera, dalla stazione di Ravanusa, mentre dall'altro lato, le benne scaricavano lo zolfo sui vagoni ferroviari. Il prezzo del trasporto dello zolfo fino alla stazione di Ravanusa compreso l'abbasso dei piani della miniera ed il caricamento sui vagoni, era di 5.75 lire a tonnellata. Dall'abbasso dei piani della miniera alla stazione della funicolare, l'appalto era dato a cottimo per 0,70 lire a tonnellata. Ancora oggi, visitando esternamente la miniera Trabia, è possibile vedere ciò che rimane di tutto l'impianto estrattivo: un tratto di funicolare, qualche castelletto, i "calcaroni"... . Poca cosa, se si considera l'intensa attività estrattiva che per ben quattro secoli ha caratterizzato non solo l'economia, ma anche la vita, la cultura, i costumi, le tradizioni del nostro popolo che non vuole rinunciare alle proprie origini di "surfarari".

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